Prime indicazioni per conservare libri e documenti
Il libro è un’invenzione geniale. Compatto e portatile, esso è stato lo strumento fondamentale per diffondere e trasmettere la conoscenza accumulata dall’umanità per centinaia di anni. Lo stesso vale ovviamente per i documenti d’archivio, prodotti con i medesimi materiali e con tecniche assai simili.
Scribi, stampatori e legatori hanno adottato una grande varietà di tecniche e materiali attraverso i secoli. Alcune soluzioni hanno dimostrato notevole efficienza e durabilità, mentre altre hanno subito gravi degradazioni di origine meccanica e chimica. La soluzione di questi problemi può essere assai complessa tuttavia, in molti casi, bastano poche e semplici misure preventive per rallentare la degradazione di un libro o di una raccolta di documenti.
L’ambiente di conservazione
Libri e documenti sono manufatti polimaterici, composti cioè da un’ampia gamma di materiali: carta, cartone, tessuto, adesivo, pergamena, cuoio, pelle allumata e, negli esemplari più antichi, legno e molti altri. Si tratta di materiali che originano per lo più da organismi viventi e proprio per questo definiti comunemente “organici”. Tali materiali sono particolarmente sensibili e perciò vulnerabili a causa delle condizioni e delle modifiche del contesto in cui si trovano e, in particolare, dell’umidità, della luce e della temperatura.
Acqua e umidità
Non è facile dire se il peggiore tra gli agenti deterioranti sia l’acqua o la luce: non c’è dubbio che i danni causati dalla luce siano inevitabili e irreversibili, tuttavia l’acqua, sia nella fase liquida (inondazioni e allagamenti), sia in quella gassosa (umidità), può determinare in breve tempo un livello di degradazione che la luce riuscirebbe ad equiparare solo nel lungo o lunghissimo periodo. La presenza incontrollata di acqua e umidità negli ambienti di conservazione è causa infatti sia di un rischio biologico che di un rischio chimico per i libri e i documenti.
Il rischio biologico Poiché carta, pergamena, cuoio ecc. hanno tutti origine organica, essi costituiscono un buon substrato per lo sviluppo di microrganismi (cioè organismi viventi non visibili ad occhio nudo; tra essi, batteri e funghi). Per crescere e riprodursi, i microrganismi hanno bisogno innanzitutto di una certa quantità di acqua, che trovano all’interno dei materiali igroscopici, i quali risentono dell’ambiente in cui si trovano. Di norma, l’acqua è infatti presente in qualunque ambiente in fase gassosa, vale a dire come umidità. Ci sono diversi modi di definire l’umidità, ma a noi interessa soprattutto l’umidità relativa (UR), quella che si misura con gli igrometri e che si esprime in percentuale: l’UR elevata è quella che, in ambienti esterni, nei giorni piovosi supera il 90%, mentre l’UR bassissima è quella del deserto, che può scendere al 10%. Secondo le norme dell’UNI (Ente nazionale italiano di unificazione) sarebbe bene che in un archivio o in una biblioteca l’UR fosse compresa tra il 45 e il 55%. Più realistico sarebbe augurarsi che essa si mantenesse sotto il 65% perché, quando l’UR supera il 60%, c’è il rischio che i libri vengano attaccati da microrganismi. Siccome la temperatura favorisce il loro metabolismo – la pasta del pane nella quale si introduce il fungo Saccharomyces cerevisiae (meglio noto come lievito di birra) per lievitare presto e bene si pone in un ambiente tiepido – se essa supera i 25-30°C i rischi aumentano. Comunque, anche in un luogo freddo, se l’UR è elevata, le muffe proliferano (dimenticate un limone nel frigorifero e, anche a 4°, dopo qualche settimana, sarà coperto da una bella muffa!). Oltre all’umidità relativa e alla temperatura, dobbiamo considerare che altri fattori favoriscono lo sviluppo dei microrganismi, a cominciare dalla scarsa ventilazione.
Il rischio chimico L’altra causa di rischio per il materiale cartaceo è di origine chimica: la carta, come tutti sanno, è formata essenzialmente di cellulosa. Attenzione, però: la carta è un sistema assai complesso, non riducibile alla sola cellulosa, come purtroppo molte volte è avvenuto nella gran parte delle ricerche chimiche sulla conservazione della carta. Trascurare l’apporto delle altre componenti – ad esempio delle sostanze usate per la collatura della carta – non consente di comprendere appieno i fenomeni di degradazione dei materiali cartacei. Ciò premesso, la cellulosa è un polimero (una macromolecola) naturale, sintetizzato dagli organismi vegetali: mettendo insieme l’anidride carbonica dell’aria e l’acqua che assorbono dal suolo, essi formano uno zucchero, il glucosio, che è il monomero, cioè la componente primaria del polimero; due molecole di glucosio danno luogo al cellobiosio, che è il “mattone” da cui dipendono le proprietà fondamentali della cellulosa. La migliore cellulosa (ricavata dal lino o dal cotone) è composta da qualche migliaio di anellini di cellobiosio, per quella della carta da giornale ne bastano poche centinaia: ciò spiega, almeno in parte, la durabilità della carta medievale ottenuta da stracci di lino.
Acqua e cellulosa
Veniamo ora ai rapporti tra acqua e cellulosa. Il fatto che senza acqua non ci sarebbe stata vita, significa che questa piccola molecola, formata da idrogeno e ossigeno, è una meraviglia della natura. La molecola dell’acqua si comporta come una sorta di micro- (anzi nano-) calamita di cui l’ossigeno costituisce il polo negativo e l’idrogeno quello positivo. Anche nella molecola del cellobiosio ci sono zone ricche di nano-calamite (un po’ diverse, ma sempre basate sulla contemporanea presenza di ossigeno e idrogeno) che attraggono le nano-calamite formate dalle molecole d’acqua. Tra acqua e cellulosa vige dunque una sorta di simbiosi, poiché la prima funge da “cemento plastico” (tiene insieme, ma anche lubrifica) per le catene polimeriche della cellulosa. La cosa si può facilmente verificare prendendo in mano un foglio umido, che risulterà floscio perché abbondantemente “lubrificato” e uno secco lasciato, ad esempio, per qualche ora su un calorifero, che apparirà molto rigido proprio per la carenza di acqua tra le catene cellulosiche. Un minimo di acqua tra le catene di cellulosa (si tratta di “acqua legata”) è infatti indispensabile per favorire la loro coesione e dare elasticità alla carta; tuttavia, quando c’è acqua in eccesso (e rimane “acqua libera”), essa diviene disponibile sia per i microrganismi, i quali possono “abbeverarsi” nelle “pozze” di acqua libera che si creano tra le macromolecole, sia per i processi di degradazione chimica, primo tra tutti l’idrolisi. Per definizione le reazioni di idrolisi (quasi sempre acida, ma esiste anche quella alcalina) della cellulosa non possono avvenire se non c’è acqua. Sicché, in un ambiente con elevata UR, esse saranno ampiamente favorite. E questa è l’ulteriore ragione che ci spinge ad abbassare nella misura del possibile, come vedremo, l’aliquota di UR nei luoghi di conservazione.
Luce
Il discorso cambia per la luce la quale, oltre ad essere l’agente che ci permette di vedere, contiene in sé una serie di radiazioni ricche di energia. Quando colpiscono documenti e libri (ma il discorso vale per tutti i beni culturali), tali radiazioni danno il via a reazioni fotochimiche che si traducono in degradazione. Se è vero che tutta la degradazione è irreversibile, per quella indotta dalla luce si deve aggiungere l’effetto di accumulo, al quale non è possibile porre rimedio. Abbiamo appena detto che la luce è quel fenomeno fisico che ci consente di vedere e, per qualsiasi tipo di bene culturale, la prima, fondamentale fruizione avviene con la vista. Certo, la luce è un inconfutabile fattore di degrado, ma senza di essa non c’è fruizione e, senza fruizione, che senso ha conservare? Eviteremo comunque di esporre libri e documenti alla luce solare (nella quale si trova una forte componente di radiazioni ultraviolette, le più dannose) e anche alla forte luce artificiale, ricordando che ogni forma di luce provoca danni. Sarà opportuno limitare l’influenza della luce nei locali in cui si trovano libri e documenti schermando le finestre con tende o pellicole capaci di bloccare le radiazioni più pericolose, nonchè selezionando la tipologia di luci artificiali in relazione al tipo di radiazioni che emettono. In ogni caso, proponiamoci di ridurre l’illuminamento (anche in termini di tempo) allo stretto necessario.
Temperatura
Molti pensano che la temperatura sia un terribile fattore di degrado, ma non è vero. Certo, associata all’umidità relativa, come si è già ricordato, essa può causare gravi danni. Anche forti sbalzi di temperatura non favoriscono la conservazione di documenti e libri, ma in genere i suoi valori non raggiungono all’interno delle case, negli archivi e nelle biblioteche, livelli preoccupanti.
L’ideale sarebbe avere una temperatura costante intorno ai 20-22°C ma si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere. In molti casi, però, potrebbe essere sufficiente sfruttare l’inerzia termica delle strutture murarie curando in particolare la tenuta di porte e finestre. In questo modo si otterrebbe, con un minimo dispendio energetico, se non la perfetta costanza della temperatura, variazioni poco rilevanti, dunque accettabili.